In corpore vili

Marc-Antoine Muret (nella foto) nacque ricchissimo a Limoges nel 1526 e morì ancora più ricco a Roma nel 1585. La cura intelligente delle sue fortune non gli impedì di formarsi una vastissima cultura filosofica e giuridica, di diventare precettore di Montaigne, di tenere seguitissime conferenze al Collège de Boncourt (re Enrico II e la regina, entusiasti, lo vollero come filosofo di corte) e di trascorrere i suoi ultimi anni, ormai celebre in tutta Europa, come professore a Padova e alla Sapienza, a cui lo chiamò papa Gregorio XIII. Una vita perfetta di un grande umanista, dunque, che fu però tormentata, negli anni centrali, da ricorrenti accuse di sodomia, che nel clima del calvinismo in rapida crescita in Francia e in quello della Controriforma in Italia si tradussero in arresti, processi e condanne al rogo alle quali Muret sfuggì più volte rocambolescamente. Nella prima di queste fughe, con il fisico già debilitato dallo sciopero della fame nelle carceri parigine, traversò le Alpi e giunse in Italia travestito da povero e gravemente malato. Ricoverato anonimo in ospedale, fu scelto dai medici, che non sapevano chi fosse, come cavia di nessun valore per una nuova rischiosissima cura. Experimentum in corpore vili, scrissero nei loro appunti. Muret scappò in tempo dall’ospedale, ma da allora il concetto di esperimento in corpore vili viene utilizzato per distinguere la ricerca asettica (che si fa in laboratorio o attraverso modelli e simulazioni) da quella che si fa sul campo in condizioni caotiche e, soprattutto, sulla pelle delle persone, che a loro volta reagiscono e interagiscono. Gli economisti amano molto modelli e simulazioni, ma nulla è paragonabile agli esperimenti reali che vengono condotti ogni tanto nel corpo vile (e spesso non così vile, come nel caso di Muret) delle nostre economie e società. Un concetto può essere buono o cattivo sulla carta, ma è poi la sua concreta attuazione, che può avvenire in molti modi e non in uno solo, a darci spunto per le riflessioni più interessanti.

Si sa che l’euro, moneta senza stato, è un grande esperimento. All’interno del programma di ricerca dell’euro c’è poi un sottoprogramma, l’Italia nell’euro (ovvero l’Italia in un’area monetaria subottimale, per dirla tecnicamente) anch’esso di grande rilievo. Dall’esperienza più che trentennale dell’Italia nell’euro, nella quale includiamo la fase preparatoria, emerge quanto siano state decisive, più dell’euro in sé, le modalità della sua implementazione e gestione. Quattro grandi errori sono stati commessi in questi trent’anni, due prima della partenza dell’euro nel 1997 e due nella fase successiva. Il primo, nella lunga fase di preparazione, è stato quello di provare a difendere livelli della lira troppo alti, dissipando ogni volta grandi fortune in un’inutile difesa del cambio salvo puntualmente capitolare e svalutare. Il secondo, alla partenza dell’euro, è stato il livello di aggancio lira-marco decisamente troppo alto. Certo, gli industriali tedeschi l’avrebbero voluto ancora più alto, ma la scelta di Ciampi di pagare questo prezzo come biglietto d’ingresso non fu certo ottimale. Ciampi era animato da spirito tipicamente mazziniano-azionista (gettare il cuore oltre l’ostacolo, con indiscutibile nobiltà di intenti ma anche con indifferenza rispetto ai costi) e pensava, come Kohl, che il momento storico fosse irripetibile e che l’occasione non dovesse andare persa. In realtà si sarebbe potuto fare tutto con calma e aspettare qualche anno, ma questo allora non lo si poteva sapere con certezza. Questi primi due errori, per quanto costosi, sarebbero stati riassorbiti col tempo se non fossero intervenuti senza soluzione di continuità il terzo e il quarto, molto più gravi. Il terzo fu di lasciare intendere, dal 1997 al 2009, che i debiti governativi europei erano tutti privi di rischio. Certo, nei trattati e negli statuti della Bce si scrisse il contrario, ma si lasciò in vigore quello che era stato deciso a Basilea nel 1988, e cioè che le banche non avrebbero dovuto accantonare capitale a fronte degli acquisti di titoli governativi, qualificandoli in pratica come privi di rischio. L’Italia e gli altri paesi mediterranei si trasformarono così, agli occhi dei mercati, in risk-free ad alto rendimento. Questa idea, che nessuno mai smentì, si trasformò in un flusso imponente di capitali verso di noi, un fenomeno che tipicamente capita ai paesi emergenti quando si scoprono improvvisamente ricchi di qualche minerale o appetibili perché si convertono a politiche probusiness.

In queste circostanze gli emergenti rivalutano oppure, come è venuto di moda negli ultimi anni, mantengono il cambio stabile riciclando e sterilizzando la valuta in entrata comprando titoli esteri e sigillandoli dentro un fondo sovrano per le future generazioni. Gli emergenti che non rivalutano e non creano un fondo sovrano si trovano costretti a bilanciare il surplus di capitali con un deficit corrente e si mettono ad alzarsi gli stipendi, a creare un disavanzo di bilancio, a consumare e a importare più che possono. Fanno una bella vita, si intende, salvo poi trovarsi con i conti in grave disordine e una bassa produttività il giorno in cui il loro petrolio scende di prezzo o i capitali esteri decidono di tornarsene a casa. L’Italia, inserita a cambio fisso nell’euro, non poté rivalutare. Né le venne in mente di fare la brava formica e sterilizzare in un fondo sovrano di titoli esteri i capitali esteri in valuta tecnicamente estera che le piovevano addosso per comprare Btp. Fece la cicala, si alzò le retribuzioni diventando meno competitiva, consumò, importò e pensò che i tassi bassi resi possibili dagli afflussi dall’estero e dall’essere di fatto risk-free sarebbero stati per sempre. L’Italia, in pratica, si fece cogliere nelle peggiori condizioni dal cigno nero del 2008- 2009. Per un paio d’anni reagì come tutti gli altri, perfino meglio degli altri, perché si giocò venti punti di Pil in ammortizzatori sociali della crisi quando gli altri se ne giocarono trenta. Il livello assoluto del suo debito dava però molto nell’occhio e si accompagnava a un disavanzo delle partite correnti che alle orecchie tedesche suonava malissimo. Vedendo che le cose in Italia, benché in via di stabilizzazione, non miglioravano, la Germania nel 2011 ebbe una crisi di nervi e proclamò in forma solenne il dogma della fallibilità del debito sovrano dell’eurozona. Alzando inni alla funzione pedagogica dello spread commise il quarto grande errore rovesciando di 180 gradi il terzo errore e commettendone uno opposto e ancora più grave. I capitali esteri investiti in Italia vennero richiamati in patria, i tassi esplosero e l’Italia fu costretta all’austerità e alla svalutazione interna nel peggiore momento possibile. La produzione industriale cadde di un quarto e si portò con sé un’ondata di fallimenti che negli anni successivi avrebbe messo in grave crisi le banche con gli effetti che ben conosciamo. Con il Quantitative easing e con il “qualunque cosa per salvare l’euro” la Bce fermò l’emorragia e contenne gli effetti del quarto errore, che lasciò comunque dietro di sé una scia di lutti e di rovine che arriva fino ai giorni nostri. Come si vede il povero euro, di per sé, non ha colpe gravi e ha anzi qualche merito. Sono tutte le condizioni intorno all’euro, con colpe europee e colpe italiane, che hanno creato il grave disordine metabolico dell’Italia, ipernutrita quando stava bene fino al 2008 e poi dissanguata quando stava male negli anni successivi. Oggi l’Italia sta benino come conti. Ha un avanzo primario non disprezzabile, un surplus delle partite correnti ottenuto sì con la deflazione salariale ma anche con una miracolosa ripresa della nostra competitività nelle nostre grosse nicchie di forza. Le banche hanno un problema strategico di profittabilità, ma non hanno più quello della sottocapitalizzazione. La somma di debito privato e pubblico in rapporto al Pil è uguale, non superiore, a quella di quasi tutti i paesi industrializzati. Diciamo che l’Italia è in equilibrio e non ha, tecnicamente, bisogno di svalutare. Non ha però la forza, in queste condizioni, di aggredire alcuni gravi problemi strutturali, primo tra tutti la disoccupazione giovanile. È andata quindi crescendo, in questi anni, l’idea di politiche supply-side come il taglio delle tasse da attuare in deficit. Nella narrazione europea deficit equivale a spread. La risposta euroscettica è che lo spread non dipende dai mercati ma dalla politica della banca centrale. Il Giappone ha un disavanzo triplo del nostro e un debito netto del 153 per cento contro il netto italiano del 121 (nel mondo si diffonde l’uso della metrica netta e negli Stati Uniti si usa quasi esclusivamente questa) eppure il decennale giapponese rende lo 0.05 e il nostro il 2.13. La replica è che il Giappone si stampa i suoi yen. Allora stampiamoci le nostre lire, rispondono gli euroscettici. Ma così si fa inflazione, si risponde. Ma in Giappone non c’è inflazione. Ma l’inflazione ci sarà perché voi volete svalutare, si dice. Ma nel 2014 siamo scesi da 1.40 a 1.05 e non c’è stata inflazione. Sì, ma se svalutate vi impoverite, prendete cattive abitudini e vi ritrovate come l’Argentina. Si può andare avanti a lungo e non è certo compito di questa nota prendere posizione. Si può però osservare che, come nella storia dell’euro il diavolo non è stato nell’euro ma in quello che gli ha girato intorno, anche un’eventuale uscita dall’euro non sarebbe un male o un bene in sé, ma potrebbe diventarlo a seconda delle condizioni di preparazione, di attuazione e di gestione. Va poi ricordato che tutto diventerà più complicato nei prossimi anni, perché la liquidità diminuirà progressivamente mentre il ciclo economico positivo prima o poi perderà slancio. Fino a oggi i populismi di destra, come da manuale, hanno fatto bene all’azionario e male all’obbligazionario e al cambio. L’esperienza che abbiamo da Stati Uniti e Regno Unito è tuttavia troppo breve per trarre conclusioni certe. Se l’Italia del cambiamento si accontenterà di un punto di spazio fiscale in più la reazione della borsa non sarà negativa e lo spread resterà sui livelli attuali. Se si vorrà andare oltre dovremo allacciare le cinture di sicurezza.

A cura di Alessandro Fugnoli, Kairos