Alla larga dall’energy

Opec, Venezuela e Iran gettano fumo negli occhi degli investitori. Il mercato ipotizza che fattori di natura economica e politica faranno da freno alla crescita dell’offerta di greggio, mentre il rafforzamento della congiuntura globale continuerà a sostenere il lato della domanda. Queste attese si sono tradotte nella risalita del prezzo del barile, ai massimi dagli ultimi 12 mesi (+42,7%), e nella lievitazione delle quotazioni dei titoli del comparto energetico il cui rapporto Prezzo/Fair value è salito a 1,15 (da 0,83 di inizio febbraio scorso, FIGURA 1).

FIGURA 1: Rapporto Prezzo/Fair value medio settore energia (dall’1/10/2002 al 3/5/2018)

“Le incertezze sul lato dell’offerta sono reali, ma quello che sfugge agli investitori è la crescita potenziale dell’offerta di greggio in seguito all’espansione della produzione di scisto negli Stati Uniti. Per questo la nostra raccomandazione è quella di avere un atteggiamento molto prudente sul settore energetico”, dice Dave Meats analista azionario di Morningstar.

Le cause della contrazione dell’offerta di petrolio
Analizziamo singolarmente i fattori che frenano l’offerta. Il cartello dell’OPEC sui limiti alla produzione di greggio è stato rispettato da quasi tutti i Paesi (a eccezione di Iraq, Nigeria e Gabon). La maggior parte di essi ha prodotto una quantità di barili inferiori alla quota concessa, mentre l’Iran, che conta per un terzo dell’output complessivo dei paesi firmatari dell’accordo, ha tagliato la produzione dell’1% e questo si è tradotto un costante calo della produzione di petrolio negli ultimi sei mesi (FIGURA 2).

FIGURA 2: Calo della produzione Paesi OPEC

 

In futuro, inoltre, la produzione di petrolio in Iran sarà condizionata dall’eventuale ripristinino di sanzioni da parte degli Stati Uniti in seguito al mancato rispetto degli accordi presi sul nucleare (nel luglio 2015). L’Amministrazione Trump aveva congelato i provvedimenti nel gennaio scorso ma le recenti tensioni tra i due paesi fanno salire la probabilità che il governo americano decida di reintrodurle. Se questo si verificasse, dicono gli analisti, si assisterebbe al taglio della produzione iraniana di circa 1 milione di barili di petrolio al giorno.

All’interno dei paesi dell’OPEC è in Venezuela che si è registrato il calo più significativo della produzione (da dicembre a marzo scorsi -20% in media rispetto al tetto previsto dal cartello) a causa della forte crisi economica in cui versa Caracas. Trump ha inoltre inasprito le sanzioni statunitensi contro il Governo Maduro e, stando alle recenti notizie, sembra che stia prendendo in considerazione ulteriori azioni, compresi provvedimenti ai danni dell’industria petrolifera venezuelana. C’è poi da considerare la variabile degli investimenti stranieri nel settore. Questi sono cruciali per provare il recupero o anche il semplice mantenimento della produzione ai livelli attuali, ma il recente arresto di due dipendenti della Chevron potrebbe convincere altre aziende straniera a lasciare la nazione.

In questo contesto, poi, si aggiunge l’instabilità politica in Libia e Nigeria. Entrambe hanno registrato negli ultimi anni una forte contrazione alla produzione (per questo che nell’accordo OPEC non è stato ufficialmente assegnato a loro alcun tetto massimo) e se le condizioni peggiorassero ulteriormente sarebbero a rischio oltre 500.000 barili di greggio al giorno.

“Sulla base di questi elementi e delle più basse aspettative circa la produzione di shale oil negli Usa, abbiamo deciso di abbassare le nostre stime iniziali circa l’offerta di petrolio per il 2018, mentre il miglioramento del quadro macro sia nei paesi sviluppati che in quelli emergenti ci ha convinto ad alzare le previsioni sul lato della domanda. Nei prossimi mesi, dunque, il sottodimensionamento della produzione non sarà in grado di rispondere alle richieste del mercato e questo continuerà a creare tensioni rialziste sul prezzo dell’oro nero ” (FIGURA 3), aggiunge Meats.

FIGURA 3: Previsioni di domanda e offerta di petrolio per il 2018

 

Il mercato, però, sta commettendo un errore di valutazione non scontando correttamente la futura crescita della produzione dello shale oil negli Usa. Il fatto che al momento lo scisto non sia in grado di rispondere all’aumento della domanda di greggio, nonostante l’aumento della sua produzione, ha alimentato i dubbi sulle sue potenzialità di crescita future facendo perdere di vista la natura dei fattori che nel breve termine hanno causato la stagnazione dei volumi di shale oil (FIGURA 4).

FIGURA 4: Produzione di shale oil negli Usa (Gennaio 2017-Gennaio 2018)

I freni alla produzione di shale oil negli Usa
Il primo di questi freni è di natura climatica: durante i mesi invernali, infatti, la riduzione della produzione non è un fatto inusuale, poiché il ghiaccio può causare il blocco dei tubi e il rallentamento del trasporto stradale, e gli analisti stimano che a causa delle avverse condizioni del meteo la produzione del Bacino Permiano è calata ad ottobre tra i 75 e il 200 mila barili al giorno.

Il secondo è legato alla mancanza di manodopera qualificata e di materiale necessari per lo sfruttamento dei pozzi attualmente aperti (nella regione più ricca del Bacino Permiano la percentuale è attualmente del 70%). A causa della crisi del petrolio molti lavoratori dell’industria hanno cambiato mestiere ma, dicono gli analisti, nonostante il basso tasso di disoccupazione negli Usa non è immaginabile che questo problema si protragga per molto tempo ancora, dato l’elevato livello delle paghe.

Relativamente al materiale di produzione, invece, le difficoltà sono dovute al trasporto della sabbia utilizzata nel fracking (insieme ad acqua e altri componenti chimici per far emergere in superfice il greggio), ma anche qui il problema non sembra di difficile risoluzione. Grazie al potenziamento del trasporto su rotaia e l’apertura di miniere di sabbia vicine al Bacino Permiano, infatti, non dovrebbero verificarsi nuovi ritardi nella produzione a causa della sua mancanza.

Eccesso dell’offerta atteso dopo il 2018
“C’è poi da considerare il tempo che intercorre solitamente tra l’apertura di un impianto di estrazione di shale oil e l’avvio vero e proprio della produzione. Questo sta falsando le aspettative del mercato sulla futura produzione di petrolio dallo scisto, ma in realtà l’attuale numero degli impianti è ampiamente superiore al livello che garantisce l’equilibrio tra domanda e offerta nel lungo termine e questo rischia seriamente di generare un enorme surplus della produzione di greggio dopo il 2018 con inevitabili ripercussioni sul prezzo del barile e sulle quotazioni delle compagnie petrolifere”, conclude Meats.

A cura di Francesco Lavecchia, Equity analyst, Morningstar Italy

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