Abissi

C’erano state perplessità, nel 2017, quando l’Austria lanciò un’obbligazione a cento anni con un tasso del 2.10 per cento. I dubbi non erano sulla logica di chi emetteva. L’Austria, dopo tutto, allungava aggressivamente il profilo del suo debito pagando un tasso basso per un secolo a venire. Brillante operazione. Le perplessità erano semmai rivolte ai compratori. Anche se avevamo imparato fin da piccoli che le performance del passato non sono una guida per prevedere quelle future, era difficile cacciare dalla mente tutto quello che era successo all’Austria nei cento anni precedenti. Nel 1917 l’Austria-Ungheria era un impero che stava vincendo una guerra mondiale e che grazie al crollo della Russia zarista poteva permettersi di spostare truppe sul fronte meridionale e dilagare da Caporetto fino al Piave. Un bond a cento anni emesso in quel momento sarebbe stato considerato un buon investimento.

Già un anno più tardi, dopo Vittorio Veneto, l’impero austro-ungarico si ritrovò però perdente e disintegrato. Persa l’agricoltura magiara e l’industria boema, la piccola e irrequieta repubblica d’Austria che ne seguì si ritrovò addosso il peso di tutta la burocrazia post-imperiale, tanto ammirata ai tempi di Francesco Giuseppe quando gestiva 50 milioni di fedeli sudditi, quanto costosa e inutile per i sei milioni di cittadini rimasti nella piccola Austria. Ne seguì un’iperinflazione che accentuò la radicalizzazione sociale e politica (e che dopo soli sei anni avrebbe polverizzato il bond a cento anni che abbiamo immaginato). Nel 1933 la repubblica si consegnò a Dollfuss, che cercò e ottenne l’appoggio di Mussolini. Questo non evitò una breve guerra civile nel 1934 e l’annessione finale alla Germania nel 1938. Da lì in avanti l’Austria condivise le sorti della Germania e si ritrovò dopo il 1945 divisa e occupata per dieci anni dalle potenze vincitrici, inclusa l’Unione Sovietica.

Oggi sembra invece andare tutto per il meglio, al punto che sul bond emesso nel 2017, che è stato recentemente riaperto con successo e che vale 163, la ragione l’hanno avuta gli avventurosi compratori, mentre il Tesoro austriaco, se avesse aspettato due anni a emettere, avrebbe potuto risparmiare la metà del flusso cedolare che dovrà pagare nel prossimo secolo.

Quanto alla domanda su che senso abbia comprare un bond a cento anni a 163, la risposta è questa. Se i rendimenti dovessero calare di un altro punto e, nel caso del nostro bond, andare quindi a zero, l’Austria 2117 dovrebbe valere 306. Se dovessero calare di due punti, il nostro bond andrebbe a 621. Se poi, alla prossima recessione, dovessimo adottare quei tassi profondamente negativi che stanno tornando di moda nel dibattito tra banchieri centrali, per vedere l’Austria quotare a 1385 (quasi 14 volte il prezzo di emissione) basterebbe un rendimento a scadenza del meno due per cento.

Vertigini? Certo

E a fare barcollare non è solo l’idea che un bond comprato oggi a 163 a tassi quasi offensivamente bassi possa andare a quattro cifre alla prossima recessione, ma anche che un bond eventualmente comprato a 1385 non solo possa, ma debba inesorabilmente concludere la sua esistenza a 100 nel prossimo secolo, quando, di quel 100, molto sarà stato eroso dall’inflazione.

Il tema dei tassi profondamente negativi era stato pensato negli anni scorsi per l’Europa. In America era stato preso in considerazione dalla Fed, ma fu presto abbandonato per la forte levata di scudi del mondo politico e dell’industria finanziaria. L’annuncio della normalizzazione globale della politica monetaria nel 2016-17 sembrò chiudere per sempre il dibattito. I tassi, si pensava, sarebbero da lì in avanti solo saliti. L’obiettivo dichiarato era di riportarli (e con loro l’inflazione) a un livello abbastanza alto da garantire, in caso di recessione, di non scendere più a zero, o di rimanerci al massimo per un breve periodo.

Per spiegare perché oggi si parli di nuovo di tassi negativi profondi non basta il rallentamento della crescita globale, che c’è sicuramente ma non è così drammatico. Se se ne parla è per due ragioni.

La prima è che l’America di Trump rifiuta l’idea che il ciclo, fisiologicamente, rallenti e vuole tenerlo in piedi a tutti i costi. Da qui l’idea di tagliare i tassi aggressivamente anche se il Pil continua a crescere, c’è piena occupazione e le borse sono sui massimi di tutti i tempi. Se in tempi ancora relativamente buoni si vuole che i tassi scendano dal 2.5 all’1.5 o anche meno, considerando che una recessione richiede mediamente cinque punti di ribasso dei tassi, partendo dall’1.5 si dovrebbe scendere a – 3.5. In alternativa si potrebbe naturalmente riprendere il Quantitative easing, ma per evitare i tassi negativi bisognerebbe farne almeno tre trilioni e portare il bilancio della Fed a dimensioni ancora più alte di quelle di due anni fa.

La seconda ragione è il dollaro forte, un tema su cui Trump appare sempre più nervoso, fino al punto da lasciare intendere la possibilità di grandi interventi di mercato. Se l’America vuole aprire una guerra valutaria (o, direbbe Trump, rispondere alla guerra aperta dagli altri) in un contesto di tassi in discesa, che cosa può fare l’Europa per rendere poco interessante l’euro se non portare i suoi tassi, già negativi, su livelli molto più bassi?

Christine Lagarde, già candidata in pectore alla Bce, nelle scorse settimane ha aperto alla MMT (una buona idea, ha detto, da usare per periodi brevi) e ai tassi profondamente negativi (che fanno bene al mondo). Poichè la MMT in Europa troverà una fiera opposizione tedesca, l’unica strada aperta (non solo in caso di recessione ma anche di semplice indebolimento del dollaro) rimane quella dei tassi profondamente negativi.

Il problema, visto dai mercati, non è per l’oggi o per l’immediato futuro

La corsa al ribasso sui tassi e sulle valute, in una prima fase, farà solo bene a bond e azioni (e oro). I guai arriveranno più avanti, sia che l’azione espansiva abbia successo sia che non ce l’abbia. Se avrà successo, l’inflazione salirà e il valore degli asset finanziari (a meno di non essere sostenuto da continui acquisti pubblici) scenderà. Se non avrà successo ci troveremo costretti o a una forte reflazione fiscale e a una monetizzazione del debito o, in alternativa, a tassi negativi ancora più profondi.

Rimaniamo quindi nel mercato in un orizzonte 2019-2020, mentre siamo sempre più curiosi di vedere che fine ci aspetta nel nuovo decennio.