L’America si innamora del socialismo

New York Stock Exchange

Gli Stati Uniti, dopo la Guerra Civile, hanno conosciuto tre fasi di deflazione strutturale, la Lunga Depressione (1873-1896), la Grande Depressione (anni Trenta) e la Grande Crisi Finanziaria (2008-2009, seguita dalla stagnazione secolare). Queste tre deflazioni hanno prodotto fortissime tensioni a tutti i livelli e hanno provocato svolte importanti sul piano politico, sociale e culturale. Hanno anche favorito la nascita o rinascita di movimenti ereticali raflazionisti che hanno sfidato il pensiero economico dominante e che lo hanno in certe fasi emarginato e sostituito. Questi movimenti ereticali sono un fiume sotterraneo che riaffiora a ogni crisi prolungata. Ora l’acqua di questo fiume arriva alle caviglie e fra un anno e mezzo potrebbe cominciare a travolgere ogni ostacolo.

La Modern Monetary Theory è l’eresia più radicale e sta a Keynes come gli Anabattisti stanno a Lutero. Oggi l’America se ne infatua e ne adotta entusiasticamente i temi, il linguaggio e le sigle, a partire dalla Job Guarantee (JG, la garanzia per tutti di trovare un lavoro ben retribuito). L’ombrello sotto il quale ripone tutti i suoi sogni è il Green New Deal. Il GND contiene la transizione completa dai fossili alle rinnovabili in dieci anni (la Germania ci prova da vent’anni, vi ha speso una fortuna ed è impantanata a un terzo del cammino), ma si allarga all’istruzione gratuita di qualità per tutti fino ai più alti livelli, alla sanità gratuita per tutti (Medicare for all, M4A), alla casa per tutti, al lavoro garantito per chiunque voglia lavorare a al reddito di cittadinanza per chiunque non ne abbia voglia (unwilling to work).

La MMT è l’evoluzione del Cartalismo (che nacque come proposta per reagire alla Lunga Depressione) e del socialismo di mercato di Abba Lerner, una risposta alla Grande Depressione più radicale di quella poi adottata di Keynes e di Roosevelt.

Ma andiamo con ordine. La Lunga Depressione inizia con la riforma monetaria del 1873 che toglie all’argento la funzione di moneta e la lascia solo all’oro. È una riforma voluta dagli stati dell’est contro quelli dell’ovest, dove si stavano scoprendo grandi quantità di argento. Deflazionisti a est, il centro, inflazionisti a ovest, la periferia. I primi prevalgono e l’offerta di moneta, privata dell’argento, cala bruscamente. Calando la moneta in circolazione calano anche i prezzi.

Chi ha debiti li vede dunque crescere in termini reali e non riesce a onorarli, fallisce e fa fallire chi gli ha prestato i soldi e così via. L’ovest cerca di reagire politicamente creando il movimento dei Silveriti e appoggiando nella corsa alla Casa Bianca il democratico William Jennings Bryan, che pronuncia nel 1896 uno dei più celebri discorsi della storia americana (“Non crocifiggerete l’umanità su una Croce d’Oro”). Ma il Cartalismo nascente va molto al di là rispetto ai Silveriti e propone moneta di carta da stampare liberamente a cura dello stato.

È affascinante che gli ultimi trent’anni dell’Ottocento, che sui testi di storia economica vengono definiti come Lunga Depressione, sui testi di storia generale americana vanno sotto il nome di Gilded Age, Età Dorata. Furono l’una e l’altra, in effetti. Enormi accumulazioni di ricchezze da una parte, deflazione salariale favorita anche dalla massiccia immigrazione dall’altra. Ineguaglianze non più viste fino a oggi.

Eppure il sistema si salvò, senza bisogno del Cartalismo, per due motivi. Il primo fu un colpo di fortuna all’ultimo minuto, l’entrata in funzione degli enormi giacimenti d’oro del Transvaal, che nel 1896 iniziarono a riversare sul mercato quantità di metallo sufficienti a reflazionare l’economia globale e a fare perdere le elezioni a Bryan. Il secondo, politico e culturale, fu il passaggio alla Progressive Era, una fase di autoriforma radicale del sistema fatta di smembramento dei monopoli, lotta alla corruzione che infestava la politica, egemonia culturale dei ceti medi, istituzione della Riserva Federale.

Anche l’uscita dalla Grande Depressione degli anni Trenta fu il risultato di un’autoriforma radicale del sistema, che con il New Deal riuscì a evitare la risposta autoritaria alla deflazione (Hitler dopo Bruning) e quella compiutamente socialista, sia nella versione sovietica sia in quella light di Abba Lerner.

Si noti che, già prima di Roosevelt, anche Hoover aveva provato a percorrere strade non ortodosse (giudicate all’epoca molto ardite) per uscire dalla deflazione. La grande diga sul fiume Colorado, un’imponente opera pubblica diventata simbolo del New Deal e della rinascita dell’America, fu inaugurata trionfalmente da Roosevelt, ma si chiama Hoover Dam, e non Roosevelt Dam, perché fu decisa e avviata da Hoover, che dalla storiografia è stato sempre condannato come un uomo del troppo poco troppo tardi.

Parliamo di Hoover per parlare di Trump, ovvero di una prima risposta alla deflazione (e alla stagnazione secolare) che al momento appare molto radicale (si pensi alla deregulation, alla riforma fiscale e al tentativo di portare stabilmente la crescita al 3 per cento) ma che evidentemente non lo è abbastanza se su tutte le televisioni d’America si parla solo di GND, lotta ai profitti e tasse altissime per i ricchi. E Trump ne è perfettamente consapevole quando in dicembre, dopo il rialzo dei tassi, afferma in un intervista che Powell e la Fed gli vogliono far fare la fine di Hoover.

Ora il dopo Trump si profila rosso fuoco. I probabili candidati democratici si dividono in tre gruppi, i centristi (Biden, Bloomberg, Clinton), i radicali (Sanders, Warren) e quelli che si collocano a metà strada (Gillibrand, O’Rourke, Booker, Harris). I centristi sono Ancien Régime e i radicali affascinano la base ma rischiano di alienare gli elettori indipendenti. È probabile quindi che alla fine prevalga qualcuno del terzo gruppo.

Quello che è interessante è che è la parte più radicale della sinistra radicale (Ocasio-Cortez, che non sarà candidabile fino al 2024) ad avere definito il terreno di discussione. Nessuno degli altri ha un tema suo e tutti, perfino Sanders, sono stati costretti a rincorrere la Ocasio. Ed è un segno dei tempi nuovi che la Amazon dell’antitrumpiano Bezos abbia rinunciato a costruire un enorme centro tecnologico a New York (cui il progressive De Blasio aveva fatto ponti d’oro) per l’opposizione del quartiere e della Ocasio. Una Tav americana.

I mercati si comportano come se le elezioni fossero fra mille anni. Molte cose, effettivamente, possono succedere tra oggi e il novembre 2020. Se ad esempio si dovesse risolvere il contenzioso commerciale America-Cina e America-Europa entro l’estate, ci sarebbe posto per una ripresa di fiducia su tutti i mercati e nessuno ha voglia di perdersi il buon rialzo che ne seguirebbe. E poi, ci sarà o no una recessione americana (e globale) nel 2020? Molti elementi fanno pensare a un forte rallentamento, ma è presto per capire se ci sarà davvero recessione.

E d’altra parte, che reazioni potrebbe indurre una recessione nell’opinione pubblica? Da un lato si potrebbe ipotizzare un’ulteriore radicalizzazione, ma dall’altro la paura potrebbe indurre alla prudenza. E che effetto potrebbe avere un candidato indipendente come Schultz? Fino ad oggi nessun indipendente è stato mai eletto, ma molti hanno conquistato abbastanza voti da fare perdere il favorito.

E infine, quanto riuscirebbe davvero a fare un presidente radicale, anche nell’ipotesi di un Congresso allineato? Farebbe eccezione alla regola per cui c’è solo un anno di tempo per fare le riforme desiderate?

A ben vedere, l’atteggiamento dei mercati è abbastanza comprensibile. Con un posizionamento ancora scarico di rischio dopo la caduta rovinosa di ottobre-dicembre, una Fed che non darà problemi come minimo fino a giugno e che potrebbe terminare in anticipo il QT già in dicembre, un’economia che da gennaio dovrebbe essere in riaccelerazione, utili ancora in crescita, Brexit depotenziata, dazi sulla Cina rinviati, ce n’è abbastanza per dare sostegno alla borse. Chi vuol esser lieto, sia, ma con prudenza.