Un agosto nervoso in vista di un settembre incerto

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Quando le società comunicano gli utili trimestrali, la reazione del mercato è normalmente asimmetrica. A parità di scostamento dalle stime, in su o in giù, le delusioni vengono punite molto di più di quanto non siano premiate le sorprese positive. In pratica, se la stima è di un euro di utili per ogni azione, un risultato di 0.97 provoca spesso una perdita in borsa del 5 o più per cento, mentre un risultato di 1.03 porta a un rialzo che di rado supera l’1-2 per cento. Questo succede perché il mercato sa che le società amano battere le stime e quindi tengono la guidance bassa proprio per potere avere un margine per sorprendere positivamente. Visto dal mercato, quindi, il superamento delle stime è come una mancia che è diventata consuetudine e che quindi non scalda i cuori più di tanto.

In questi giorni, in occasione della pubblicazione delle trimestrali, stiamo però assistendo a un fenomeno inconsueto. Chi delude viene giudicato senza attenuanti e viene punito con il massimo della pena, ma sono frequenti i casi in cui chi sorprende positivamente viene anch’esso punito con un ribasso a meno che la sorpresa positiva non sia davvero rilevante.

Vengono in mente varie spiegazioni. La prima, psicologica, è che i mercati sono così viziati (in particolare dopo la riforma fiscale americana) da provare una soddisfazione marginale addirittura negativa per le buone notizie, come la diva del bianco e nero che prova quasi fastidio per l’ennesimo cesto di fiori che non sa più dove mettere. La seconda è il posizionamento del mercato, evidentemente sbilanciato al rialzo. Su questo, però, non ci sono conferme empiriche particolarmente rilevanti. La terza, la più spiacevole, è che si stia diffondendo la sensazione che meglio di così non può andare, mentre può andare peggio, in particolare da settembre. È come se si volesse uscire dal mercato e si aspettasse la comunicazione degli utili per prendersi l’ultimo rialzo, salvo ritrovarsi in tanti ad avere fatto lo stesso ragionamento e uscire pestandosi i piedi l’uno con l’altro con il titolo che scende nonostante i buoni risultati.

A preoccupare non è il ciclo economico (che potrà magari non sostenere i forti ritmi degli ultimi mesi ma che si manterrà comunque in buona salute ancora per qualche tempo). E non suscitano ansia, per il momento, nemmeno le politiche monetarie, che si muovono lungo percorsi annunciati da tempo o si limitano a modesti aggiustamenti tecnici, come stiamo vedendo in Giappone.

Che cosa dunque induce questa voglia di prendere profitto e mettersi alla finestra? I dazi e l’Italia e, ancora di più, la combinazione dei due fattori. Attenzione, su entrambi i fronti tutto è aperto. Gli esiti potrebbero certamente essere negativi, ma anche non dirompenti e perfino positivi. Il problema è che non lo sappiamo. Non siamo di fronte a una tempesta annunciata, ma all’incertezza che comunque, su livelli alti di mercato, induce a realizzi. Cominciamo dai dazi. C’è stato un alleggerimento della tensione con l’Europa e un inasprimento forte e inatteso dello scontro tra Stati Uniti e Cina, che nei primi giorni di settembre potrà avere ulteriori sviluppi. Siamo passati, in una sequenza sempre più rapida, dai dazi su acciaio e alluminio, a quelli del 25 per cento su 50 miliardi di controvalore di prodotti cinesi (in due tranche, da 34 e da 16) fino ad arrivare a quelli del 10 per cento su 200 miliardi, da implementare appunto fra quattro settimane. Negli ultimi giorni, vista la svalutazione cinese, il 10 per cento in programma è stato portato al 25 senza escludere, con il renminbi che ha ripreso a scendere, ulteriori aumenti di aliquota e ulteriori allargamenti del sottostante, che potrebbe arrivare a includere tutte le importazioni americane dalla Cina, nessuna esclusa.

Dalle manovre di aggiustamento cinese sul cambio e dalla durezza anche verbale delle prese di posizione si capisce che le due parti, in particolare la Cina, si preparano a uno scontro di grande portata e di lunga durata. Finora, a guardare cambio e borse, è l’America ad apparire in grande vantaggio. Il dollaro si rafforza, il renminbi si indebolisce ogni giorno. New York guadagna il 6 per cento da inizio anno, Shanghai perde il 18. L’America cresce del 4, la Cina fatica a mantenere il suo 6.5 ufficiale.

Trump, tuttavia, non ha molto tempo a disposizione. La sua popolarità è ora più alta di quella di Obama nello stesso punto del mandato, ma è fragile. Alzare i toni con la Cina è facile finché la borsa va bene, diventerebbe molto più difficile con un mercato in discesa o addirittura spaventato. Trump sa che la borsa non salirà in eterno e deve approfittare del momento. Ma lo sa anche la Cina, che sta scavando le trincee in attesa di tempi migliori che potrebbero arrivare già in novembre, se il Congresso passerà ai democratici, e ancora di più nelle settimane successive nel caso la camera bassa avvii la procedura di impeachment di Trump e la borsa, spaventata, prenda a scendere.

La necessità per Trump di fare in fretta e la disponibilità cinese a stringere i denti in vista di tempi più propizi fanno pensare a un settembre di fuoco. Non bisogna però dimenticare che anche Xi Jinping ha i suoi problemi. Avendo assunto poteri assoluti, qualsiasi danno creato dai dazi verrà addebitato sul suo conto. Ora è vero che la Cina è ipersensibile sul tema della difesa della sua dignità di fronte allo straniero e che Xi potrà fare leva sull’orgoglio e il patriottismo per qualche tempo, ma non per sempre. Per questo non è da escludere un accordo di compromesso, o quantomeno la riapertura di un serio negoziato, entro la fine di quest’anno. Così come non è da escludere del tutto lo scenario finale ottimale, quello di un abbassamento generalizzato delle barriere doganali.

Quanto all’Italia, fare previsioni è altrettanto difficile. La dispersione degli scenari possibili è molto ampia. Si va da un negoziato franco ma civile e ragionevole con Bruxelles a una rottura dalle conseguenze imprevedibili. Ci limitiamo a ricordare due fattori. Il primo è che non esistono solo il Piano A e il Piano B. C’è anche il Piano C, che consiste nell’aspettare che le elezioni europee cambino l’indirizzo politico dell’Europa e la natura dell’euro. Il Piano C, la Parigi di Enrico IV, varrebbe bene la messa di un Piano A, ovvero di una finanziaria tutto sommato moderata. Il secondo è che l’Italia non è l’unico giocatore in campo.

Finora si è detto che Germania e Francia, messe alle strette, concederanno più spazio all’Italia. Ma c’è anche da considerare l’ipotesi opposta, ovvero che di fronte all’erosione di consenso in atto (Cdu-Csu per la prima volta sotto il 30, Macron ai minimi di popolarità) e alla possibilità di un ulteriore indebolimento l’anno prossimo, Germania e Francia cerchino di giocare d’anticipo e di confrontarsi con l’Italia in modo duro. Anche qui, come sui dazi, non sono da escludere scenari ragionevoli e positivi.

La Germania sa che un giorno dovrà accettare un piano di investimenti pubblici europei se vorrà salvare l’Unione. Perché non accelerarne i tempi, chiedendo in cambio all’Italia di contenere la sua propensione alla spesa? In conclusione, due anni fa a quest’epoca il mondo appariva tranquillo, ma anche stagnante. Oggi tutto è in movimento e c’è più crescita, ma il vento è entrato in casa e non si sa che cosa combinerà. La lentezza e la prudenza con cui le banche centrali continuano a normalizzare le politiche monetarie portano a escludere vuoti d’aria clamorosi nella crescita dei prossimi mesi. Non si può però escludere che i vuoti d’aria li creino la grande politica o i mercati stessi.

La grande politica, tuttavia, starà molto attenta a passare dalle minacce alla guerra aperta. Quanto ai mercati, il 2018 come anno di presa di profitto significa che arriveremo al 2019 meno carichi, che eventuali correzioni saranno meno pesanti e che recuperi successivi saranno più probabili. Insomma, non ci sono ancora le condizioni per lanciare allarmi ma non ci sono più le condizioni per cercare rendimento a tutti i costi prendendo troppi rischi di duration e di credito o con un’esposizione azionaria aggressiva.

Per il momento è sufficiente giocare in difesa sull’obbligazionario (buoni emittenti, durate non superiori ai 5-7 anni, ampio spazio agli indicizzati all’inflazione, pochi emergenti ben selezionati geopoliticamente e non comprati in blocco con Etf, parte italiana indicizzata e non a tasso fisso) e concentrare l’attacco sull’azionario (crescita a prezzo ragionevole e difensivi) in quantità comunque inferiori a quelle degli anni scorsi. Nel breve dollaro forte finché la guerra sui dazi rimane calda e borse europee, di conseguenza, sostenute dalla debolezza dell’euro